E in preparazione ai premi più ambiti a livello mondiale, da oggi fino al 23 aprile, vi porterò ogni settimana due delle mie opinioni riguardo gli otto film candidati nella categoria di “miglior film” agli Academy Awards 2021.
Oggi si comincia con i film presenti su Netflix, entrambi tratti da storie vere: “Il processo ai Chicago 7”, una storia di giustizia, e “Mank”, un tributo a uno dei maggiori capolavori del cinema classico.
IL PROCESSO AI CHICAGO 7
Avete presente la rabbia e l’adrenalina che scorre dentro quando qualcosa di ingiusto viene a galla? I movimenti studenteschi, la rivoluzione culturale, le proteste contro la Guerra in Vietnam. Gli studenti della fine degli anni ‘60 conoscevano molto bene quella sensazione.
E’ proprio nel 1968 infatti che Abbie Hoffman, Jerry Rubin, Tom Hayden, Rennie Davis, David Dellinger, Lee Weiner, John Froines e Bobby Seale vengono arrestati e accusati di aver incitato alla rivolta durante la Convention Nazionale Democratica di Chicago. Julius Hoffman, il giudice, è evidentemente contro l’accusa, e inizia a rimuovere i giurati sospettati di simpatizzare con gli imputati, accusando continuamente gli imputati e i loro avvocati di molteplici oltraggi alla corte.
Il film è concepito in modo impeccabile, riuscendo ad avere picchi narrativi che fanno arrivare a battere il cuore per il grandissimo senso di giustizia che infiamma da dentro. Vengono rappresentati esseri umani, persone vere e proprie, che non sono solo ciò che sembrano all’apparenza ma sono piene di sfaccettature. Tutto il film è concentrato sul processo, sulle testimonianze, ma è intriso anche di flashback dei racconti dei cinque rivoltosi, e nel culmine della parata e della violenza, le immagini del film vengono alternate con quelle in bianco e nero della reale rivolta del ‘68. Vedere la violenza, i ragazzi e i poliziotti del tempo fa veramente percepire il clima che a quel tempo si respirava. Il tutto è condito con una buonissima dose di ironia, impartita più che altro da Sacha Baron Cohen e dal suo splendido personaggio hippy, Abbie Hoffman, per il quale si è meritato la nomination a miglior attore non protagonista. Eddie Redmayne è il suo antagonista, Tom Hayden, uno studente modello che per la maggior parte del film tenta di fare la cosa giusta. Il punto focale rimangono i soldati in Vietnam, che ogni giorno perdono la vita, e Rannie Davis, interpretato da Alex Sharp, non manca di ricordarlo in continuazione ai compagni. Un film da brividi, che fa nascere un senso di insurrezione e giustizia, che nelle sue due ore urla insistentemente contro il sistema, marcio e intriso di razzismo, con la storia della comunità delle Pantere Nere (ingiustamente inclusa nel processo) a completare il quadro.
Con ben 6 candidature ai premi Oscar, e diretto da Aaron Sorkin, vedremo quante faville farà la notte del 25 aprile.
MANK
Il tipico fascino del bianco e nero, delle musiche anni ‘30 e ‘40, della Hollywood del tempo… Tutto girato quasi in pellicola (quando in realtà è digitale) ma che racchiude appieno il bel sogno americano del cinema dello star system. E’ la storia di un emarginato del mondo di Hollywood, di un alcolizzato, di un maestro. E’ il 1940 quando Orson Welles richiede allo sceneggiatore Herman J. “Mank” Mankiewicz, a letto per un incidente, di scrivere un film per il quale gli dà due mesi di tempo. Isolato e costretto a dettare la sceneggiatura alla segretaria Rita, attraverso diversi flashback degli anni precedenti, veniamo a conoscenza della complicata personalità dello scrittore. Un film fatto come i “vecchi film”, dove troppo spesso gli ideali e i sogni vengono a intrecciarsi con la politica e i guadagni, concentrando molta parte del racconto sulla campagna elettorale a governatore della California nel periodo della grande depressione.
Il punto forte del film è proprio il bianco e nero usato con maestria. Le dissolvenze tipiche degli anni del cinema classico, i piccoli difetti di ripresa (un piccolo cerchio appare quasi sempre in alto a destra del film, proprio come se fosse girato con la pellicola) le scritte a introduzione dei flashback che compaiono come fossero su una macchina da scrivere. Il tipico gusto dello star system dell’epoca per questo film ci ha messo più di trent’anni a venire a galla: è dagli anni ‘90 che David Fincher cercava qualcuno che producesse il suo film sullo sceneggiatore di “Quarto potere”. Voleva una storia girata esattamente nel modo in cui fu girato il film che racconta, voleva rappresentare quell’epoca e quella Hollywood con quello stile. Il film si destreggia bene (ma non benissimo) tra presente e passato, e il ritratto di Mank è costruito in modo così impeccabile che alla fine del film sembrerà di averlo conosciuto davvero e di aver sentito e vissuto davvero tutto ciò che ha affrontato lui. Il senso di giustizia che lo porta alla fine a voler a tutti i costi i diritti della sceneggiatura sono leciti più che mai, ha scritto 300 pagine e più in tempo record, in soli 60 giorni, e ha fatto nascere un vero e proprio capolavoro che rimane intriso nell’animo di chiunque abbia guardato “Quarto potere”.