Recensione 3/19 – Silvio Soldini, 2021
Vi piacerebbe se un giorno il mondo intero nel momento in cui la vostra anima lascerà per sempre il vostro corpo vi dimenticasse? Nessun ricordo, cancellati completamente, come se mai foste esistiti. Sarete solo degli sconosciuti sotto terra il quale nome non è nemmeno presente sulla fredda stele. Questo è quello che purtroppo succede a tanti immigrati, e Silvio Soldini decide di denunciarlo con un film all’apparenza molto semplice, ma che tra i fotogrammi nasconde molto più di quello che si vede.
Si deve leggere tra le righe la storia di Camilla, un’avvocatessa di Milano troppo distratta dal lavoro, incastrata in un vortice senza fine dedito solo all’efficienza del suo ufficio. Tutto questo non le permette di vivere davvero, di conoscere sua figlia Adele ormai ventenne, di fermarsi semplicemente per respirare qualche secondo al mattino. Torna spesso l’immagine di una foresta, della natura, di un luogo incastrato nella mente ancorata all’infanzia della protagonista, che purtroppo piano piano è stata cancellata. Alienata da questa vita che non le lascia la possibilità di capire cosa significhi vivere per davvero. E lo capirà solo quando entrerà a contatto con la dura e fredda morte, quando un ragazzo qualsiasi in motorino la scaraventerà a terra, e lei quasi illesa apprenderà della sua morte. La sua ossessione per il caso, la curiosità maniacale nei confronti di uno sconosciuto, la riporterà piano piano in vita. Riuscirà tutto ciò però a farla evadere dal lavoro troppo opprimente, a farle capire cosa sono i veri valori della vita? Riuscirà a comprenderli e tenerli stretti senza farli più scappare?
E’ tutto da scoprire in sala dall’11 novembre. Non aspettatevi inquadrature rivoluzionarie o spettacolari, tutto è molto semplice e monotono, affacciato su una gelida e grigia Milano. I costumi di queste persone da ufficio sono tutti uguali, in giacca e cravatta o tailleur. Ciò che conta è la disperazione, che però non urla. E’ la confusione che viene nascosta sotto strati di polvere ordinata che si palesa nelle infinite case che Camilla visita nel corso del film, senza che mai il regista ci faccia capire dove siamo, perchè è tutto impersonale. Importante è la disperazione dell’ordinario. E ci si sente soffocare da questo. La fotografia è ciò che c’è di bello a livello estetico e ciò anche che ci permette di respirare in tutto questo ordinato caos. E’ un film sicuramente d’impatto, che rivedrei volentieri. Le doti di Kasia Smutniak sono inequivocabili e ha la capacità di tenere incollati allo schermo prendendosi giustamente tutto lo spazio che merita. E poi c’è Francesco Colella, nei panni del direttore dell’obitorio Bruno, che grazie alla sua bravura attoriale porta finalmente un po’ di dolcezza e umanità nel racconto e sullo schermo.