Quale sia il punto di rottura di una società e quale sbocchi possano avere le rivolte spontanee non è chiaro. Nel senso che non è mai il detonatore della protesta, di solito una misura antipopolare, ciò che spiega la marea sotterranea che all’improvviso esce in superficie travolgendo la politica come sta succedendo in Libano, Ecuador o Cile. Situazioni diverse, ma con punti in comune che riguardano il rifiuto della corruzione, il rifiuto delle ricette belle e pronte degli organismi finanziari internazionali, il disconoscimento di classi politiche asservite agli interessi di pochi. Le odierne rivolte, per quanto spesso ad alta intensità di violenza, sono una disperata richiesta di democrazia. Non soltanto formale, anche perché si verificano in paesi dove si vota regolarmente, ma sostanziale. Se la liturgia democratica blocca piuttosto che spinge le riforme necessarie perché le maggioranze possano godere dei diritti economici, dei benefici della crescita economica, allora si scende in piazza per riappropriarsi del diritto a decidere.
Dopo la falsa illusione della fine della storia, anche la teoria delle società liquide è in crisi. Sempre più gente in diversi punti del pianeta torna a rischiare la propria pelle per dire basta, ma non è la classica rivolta dei dannati della terra dei tempi della decolonizzazione, è la protesta disperata dei precarizzati, degli impoveriti, di coloro che trovano sbarrato il loro futuro. Un mondo nel quale uno doveva valere uno, tutti uguali nel grande pentolone della globalizzazione, e che si scopre ora più classista e razzista di prima. Non convincono ormai più le pubblicità seducenti che raffigurano un mondo di cittadini uguali davanti alla tecnologia e al futuro. Quel futuro è segnato se non si ritorna a immaginarlo diversamente e ad agire di conseguenza. Ogni protesta ha matrici diverse e sbocchi diversi, prendono più forza dove dietro c’è un’organizzazione sociale in grado di negoziare e di rappresentarla. È più caotica dove non vi sono istanze pronte a guidare e incanalarla. Ma questo alla fine non è un limite, come si sta vedendo, perché la stessa forza dirompente dei cittadini parla a un potere che annaspa. Nel copione del XXI secolo non c’era la stagione che si sta aprendo. Che sicuramente sarà fucina di nuove formazioni politiche e di ribaltoni futuri. Nemmeno i grandi dell’economia mondiale sanno bene cosa dire, esaurito il repertorio della comprensione, a parole, delle cause che portano la gente in piazza. Il tempo delle parole che e delle buone intenzioni si sta esaurendo velocemente. Sia quando si parla di ambiente sia quando si parla di diseguaglianza. Ormai suonano totalmente stonati i grandi proclami sulla sostenibilità e la lotta alla povertà. Oggi si sta svegliando un mondo che non ha più tempo per le parole, vuole fatti concreti. E se la politica tradizionale non li produce allora si torna a fare politica dal basso, anche scontando violenza e caos. Si torna a rischiare in proprio, si spengono gli schermi del mondo virtuale e si torna a lottare per cambiare quello reale. Non sarà una passeggiata, ma nemmeno un passaggio effimero. Questa protesta anti-sistema, che però non si pone come obiettivo abbatterlo ma riformarlo profondamente, ha le gambe lunghe. E quando i Piñera, i Moreno, gli Hariri, i fondomonetaristi riconoscono di avere sbagliato, chiedono scusa, hanno già perso.